Il chip shortage continua a creare non pochi problemi alle supply chain di molte industrie, rimandando ancora una volta il sentore di aver superato la fase più critica. Ad oggi non è infatti possibile prevedere quando si potrà tornare a vivere una situazione di normalità almeno apparente, in cui per ricevere un ordine di chip non si debba necessariamente attendere decine di settimane.
Vediamo quali sono le principali ragioni dello chip shortage, un fenomeno che ci accompagnerà almeno per gran parte degli anni 2020, costringendo il mondo a riforme ed investimenti strutturali per superare uno degli attuali limiti alla digitalizzazione globale.
Chip shortage: cos’è e quali sono le principali criticità
Per chip shortage si intende la carenza di disponibilità di chip a livello globale, risultato di molti fattori, per lo più indipendenti tra loro, che hanno contribuito a generare una situazione di offerta nettamente inferiore alla domanda proveniente dal mercato. Vediamo alcune delle dinamiche che nel corso degli ultimi due anni hanno inciso in maniera significativa sull’aggravio della crisi dei chip.
Incremento generale della domanda per nuove applicazioni tecnologiche
La trasformazione digitale che stiamo vivendo ha comportato una notevole richiesta di chip da parte dei produttori hardware, che hanno implementato notevolmente sia la varietà che la complessità dei componenti elettronici necessari per costruire i nuovi prodotti.
Oggi un’auto relativamente comune può comodamente montare a bordo alcune migliaia di chip per abilitare una serie di crescenti funzionalità legate ai componenti automatizzati, ai sistemi di guida autonoma e di navigazione assistita. Giusto per citare un esempio relativo a quello che con ogni probabilità costituire il settore più colpito da questa crisi.
Anche in assenza delle criticità che esamineremo a partire dal punto successivo, lo chip shortage si sarebbe verificato in ogni caso, a causa di una carenza strutturale dell’offerta nel far fronte ad un volume di crescita di semiconduttori senza precedenti.
Pandemia Covid-19 (dal 2020)
In primo luogo le difficoltà causate dai lockdown e al drammatico rallentamento della logistica su scala globale hanno generato un grave rallentamento delle supply chain, a cui si è aggiunta la domanda di dispositivi informatici per far fronte al lavoro in remoto, alla didattica a distanza e a tutte le situazioni impreviste ed imprevedibili che i cittadini di tutto il mondo si sono ritrovati all’improvviso a dover affrontare per superare digitalmente le restrizioni fisiche imposte dalla pandemia globale.
Nel mercato IT, la crisi dei chip ha portato alla riscoperta di sistemi come i Chromebook, che hanno vissuto un’inaspettata fortuna commerciale, dopo essere rimasti ai margini per diversi anni. Le notevoli scorte di produzione, il costo contenuto e la possibilità di sfruttare il SaaS per fare tutto attraverso il solo utilizzo di Google Chrome ha oltretutto dimostrato le straordinarie potenzialità del software cloud, almeno per quanto riguarda le esigenze della maggior parte della popolazione.
Crisi politica USA-Cina (dal 2020)
Le crescenti tensioni sul fronte economico tra Cina e Stati Uniti hanno portato il Dipartimento del Commercio del governo americano a formulare dure restrizioni nei confronti di SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) il principale produttore cinese di chip. Le limitazioni comprendevano sia un embargo sui mercati che il diniego ai tech provider americani di fornire tecnologie utile ad implementare le linee di produzione dei chip. La crisi di SMIC è rapidamente ricaduta su altri produttori asiatici, tra cui ovviamente i leader assoluti del mercato: la taiwanese TSMC e la koreana Samsung. Al di là degli interessi speculativi, tali produttori non sono riusciti a fronteggiare la domanda globale, anche perché a fronte dell’imminente crisi, moltissime aziende hanno effettuato degli ordini oltre alle esigenze derivanti dalla produzione, per cercare di riempire il più possibile le scorte a fronte del continuo dilatarsi dei tempi necessari per ricevere le forniture di chip.
Calamità e disastri naturali (2021-2022)
Come se non fossero bastate le pandemie globali e i disastri geopolitici, gli stabilimenti dedicati alla produzione dei chip sono stati spesso colpiti da vere e proprie calamità naturali o eventi metereologici del tutto eccezionali, come la tempesta di neve che nel febbraio 2021 ha travolto Austin, che si trova in un contesto geografico, il Texas, di cui è peraltro capitale e che non andresti ad associare ad uno scenario in pieno stile The Day After Tomorrow. Tale episodio ha costretto due grandi impianti, rispettivamente di Samsung e NXP Semiconductors, a chiudere i battenti per diversi mesi, prima di ripristinare le linee di produzione dai danni subiti.
Che siano o meno gli effetti del famigerato climate change non è dato a sapersi, ma la stessa TSMC, che da sola produce oltre il 50% dei wafer di chip a livello mondiale è stata vittima della grave inondazione che ha colpito Taiwan nel corso del 2021, la peggiore da oltre 50 anni. In tal caso, il problema non è stato generato dall’allagamento del piano di fabbrica, ma dalla scarsa disponibilità di acqua ultra-pura per la pulizia degli impianti in cui si producono i wafer. Secondo alcune stime pubblicate dal New York Times, TSMC impiega ben 63mila tonnellate di acqua al giorno, un dato che equivale a oltre il 10% della disponibilità idrica locale. Si tratta di un aspetto che deve far riflettere circa la sostenibilità di questi grandi impianti di produzione, soprattutto nell’ottica attuale, che prevede di costruire molti nuovi stabilimenti per far fronte al continuo incremento della domanda.
Dopo le tempeste e le inondazioni è la volta degli incendi. E ci spostiamo in Giappone, dove una fabbrica di Asahi Kasei è stata gravemente danneggiata nell’ottobre del 2020, mentre uno stabilimento di Renesas Electronics ha subito la stessa sorte pochi mesi più tardi, nel marzo 2021, generando enormi criticità per il fatto che questa azienda da sola garantisce circa il 30% dei chip per il comparto automotive a livello globale, a cominciare dai grandi brand nipponici, come Toyota e Nissan. La produzione di Renesas Electronics è stata ristabilita dopo circa quattro mesi. Nel gennaio di quest’anno un altro grave incendio ha colpito uno stabilimento di ASML, con sede a Berlino, causando il crollo della disponibilità per alcuni componenti utilizzati durante la supply chain di produzione dei chip.
Crisi politica e invasione della Russia in Ucraina (dal 2022)
Tra le gravi conseguenze a livello economico che il grave conflitto in corso in Ucraina ha generato ci sono anche pesanti ricadute sulla produzione dei chip. Ad aggravare il chip shortage a livello globale è infatti il drammatico aumento del prezzo del neon, il gas che viene utilizzato dai laser impiegati nel processo di lavorazione della manifattura dei chip. Dal dicembre 2021 al momento in cui scriviamo il costo in termini di materia prima del gas neon è aumentato di ben sei volte.
L’occupazione russa ha di fatto paralizzato la produzione e la logistica per la maggior parte delle aziende Ucraine, uno dei principali esportatori del pianeta. La fornitura di gas neon non ha fatto eccezione dal momento che uno dei principali stabilimenti si trova nei pressi di Mariupol, cittadina sul mar d’Azov ormai tristemente nota ai notiziari di tutto il mondo per essere una delle località colpite più duramente dall’offensiva di Vladimir Putin.
Da sola, l’Ucraina produce oltre la metà del neon a livello mondiale e lo stop alla produzione ha messo in primo luogo in crisi i partner russi che lo impiegano nella produzione dell’acciaio, oltre al fatto che la quasi totalità del neon utilizzato dai produttori di chip americani proviene dagli stabilimenti ucraini. Per quanto la Cina abbia dato la propria disponibilità ad aumentare la produzione di neon, gli effetti benefici di tale decisione saranno effettivi tra circa un anno, per via dei tempi oggettivi per attivare gli stabilimenti di produzione necessari. A complicare ulteriormente le cose sul fronte del chip shortage ci hanno pensato le sanzioni economiche dell’Occidente nei confronti della Russia, che si è vista limitare le esportazioni di palladio, un metallo correntemente utilizzato per la produzione dei chip.
Per quanto i produttori di chip si stiano attivando per cercare alternative alle materie prime proveniente da Russia e Ucraina, è lecito attendersi uno scenario critico che durerà diversi mesi, oltretutto a fronte delle incertezze relative alla durata del conflitto attualmente in corso.
Le industrie più colpite dal chip shortage
Una recente analisi effettuata da Goldman Sachs ha rilevato come almeno 169 industrie siano rimaste coinvolte dallo chip shortage in maniera più o meno grave, con un podio composto dal mercato dell’automative, della consumer electronics e delle console gaming.
Industria automobilistica
Il mercato automotive incide per il 15% della produzione globale dei chip, un dato che la vedrebbe dietro al gigantesco ecosistema dei dispositivi informatici personali, il cui mercato si posiziona nell’ordine del 50%, anche se ha risentito molto meno della crisi per via di una maggior agilità nel rilascio dei prodotti e di accordi migliori con i produttori di chip, che hanno dovuto dare al comparto IT una significativa priorità rispetto ad altre industrie.
Il danno derivante dalle mancate vendite imputabili allo chip shortage sarebbero quantificabili nell’ordine di circa 210 miliardi di dollari per l’anno 2021, anche se questo dato non incide linearmente sulla curva dei profitti, che non ha per il momento subito contraccolpi così pesanti. Semplicemente, a rimetterci sono stati mediamente I consumatori, dal momento che i prezzi delle auto sono aumentati e al tempo stesso sono calate le scontistiche promozionali che solitamente le case automobilistiche adottano per incentivare l’acquisto dei propri mezzi.
Si è insomma assistito ad uno scenario abbastanza strano, in cui non si è verificato il crollo della domanda ipotizzato all’inizio della pandemia, per cui i produttori di auto non sono riusciti a far fronte alle richieste, finendo per soddisfare gli ordini in tempi sempre più lunghi. La situazione ricorrente è quella dei brand automotive costretti a fermare la produzione di migliaia di auto sulle rispettive linee in quanto mancano alcuni componenti, tuttavia sufficienti per impedire il completamento del veicolo.
Senza fare la lista di chi piange maggiormente questa situazione, basti sapere che praticamente tutti i principali brand automotive sono stati costretti a rallentare o fermare diverse linee di produzione, con serie ricadute sul fronte occupazionale, con decine di migliaia di dipendenti licenziati o costretti al ricorso degli ammortizzatori sociali. Nel settembre 2021, Toyota è stata costretta a tagliare circa il 40% della produzione, mentre General Motors ha continuato a produrre fermando del tutto le linee per una o due settimane al mese nei propri stabilimenti americani. Anche Stellantis e I produttori tedeschi hanno subito la stessa sorte, differenziando soltanto la natura specifica del disagio.
I brand automotive stanno cercando soluzioni alternative. Ford ha chiuso un accordo con GlobalFoundries, di recente uscita da AMD ed attuale quarto produttore a livello mondiale dietro TSMC, Samsung e UMC, per produrre in autonomia i chip che le servono per garantire continuità ai volumi di produzione di auto previsti. Tale accordo dovrebbe rientrare nell’ambito delle misure di sostegno che il governo americano ha deciso di garantire per sostenere il settore automotive a stelle e strisce nel far fronte alle carenze di semiconduttori, chiedendo ai produttori di auto e chip di lavorare congiuntamente per individuare delle misure concrete per individuare uno schema di priorità su cui intervenire.
Tale richiesta sarebbe coerente con lo spirito dell’accordo tra Ford e GlobalFoundries, il cui comunicato riporta semplicemente che i due brand stanno collaborando per “esplorare le opportunità di ampliare la produzione di semiconduttori per supportare l’industria automobilistica”. La condizione più probabile è pertanto che l’accordo al momento consista in una sorta di prelazione, dal momento che in una recente comunicazione GlobalFoundries ha comunicato di aver esaurito la disponibilità di ricezione degli ordini almeno fino al termine del 2023.
General Motors, attraverso le parole del suo CEO, Mark Reuss, ha affermato di aver intrapreso una serie di partnership con i principali produttori a livello mondiale, come Qualcomm, TSMC e Nxp Semiconductors. Il trend generale è quindi quello di cercare di accaparrarsi la maggior quantità di ordini possibile, andando tuttavia a bussare sempre alle solite porte.
Oltre ad una maggior disponibilità di chip a livello generale, che verrà raggiunta con l’ingresso in produzione dei nuovi stabilimenti attualmente in fase di realizzazione da parte dei produttori di chip, è probabile che intervengano modifiche a livello di progettazione delle auto. Attraverso alcuni adattamenti, alcuni brand hanno temporaneamente ridotto il numero dei chip a bordo delle loro auto, con alcune rinunce nelle parti meno critiche, come gli specchietti retrovisori e i sistemi di gestione di alcuni sensori di priorità secondaria.
In futuro il design dei componenti elettronici potrebbe ad esempio prevedere nativamente alcune alternative, in modo da sfruttare differenti tipologie di chip, agevolando la produzione sulla base di quelli che godono della maggior disponibilità in un determinato periodo. È evidente come nessun produttore automotive disponga, né sia in grado di implementare in autonomia le tecnologie necessarie per produrre i chip che le occorrono.
Consumer Electronics – Componenti informatica (schede video)
Lo chip shortage ha causato una notevole crisi di produzione per alcuni componenti informatici, in particolare le schede video. Nel 2020 c’è stata infatti una coincidenza di situazioni che ha fatto crollare gli abituali equilibri tra domanda ed offerta. La produzione di schede video vede impegnati sostanzialmente due brand: NVIDIA e AMD, oltre ai produttori di chip integrati, che tuttavia sono stati toccati molto meno da questa criticità.
La crisi è esplosa nel pieno della pandemia, ma il settore era da tempo sotto stress per via della crescente domanda di device da parte dei cryptominer, coloro che utilizzano le schede video per elaborare i complessi calcoli utili a svolgere le operazioni che, in sede di ricompensa, generano le cryptovalute come bitcoin. Questo si aggiunge al mercato tradizionale, composto dalle esigenze dei gamer e di coloro che effettuano attività basate sulla computer grafica, come il rendering 3D e l’editing video.
Se sommiamo una serie di fattori come l’uscita di nuovi modelli e il drammatico aumento della domanda, ci rendiamo facilmente conto come la crisi dei chip abbia offerto il proverbiale colpo di grazia al mercato delle schede video. Gli effetti di tale crisi sono stati un allungamento dei tempi medi di attesa, presto scalati nell’ordine di diversi mesi, oltretutto con una difficile visibilità sulle consegne effettive, ed un clamoroso aumento dei prezzi di mercato rispetto ai prezzi di listino fissati dai produttori. Nei marketplace per molto tempo abbiamo trovato schede video al triplo del loro prezzo normale, con i top di gamma in grado di superare facilmente i 2000 euro. Cifre letteralmente al di fuori di ogni logica, con un mercato che ha continuato ad andare perennemente in sold out, agevolando ulteriormente la speculazione derivante dalla crisi dei chip.
Nel momento in cui scriviamo la situazione si è parzialmente normalizzata. Le disponibilità di alcuni modelli appaiono discrete e i prezzi sono nell’ordine del 30-40% in più rispetto agli indicatori provenienti dai listini ufficiali. Si tratta di percentuali ragguardevoli, ma quasi trascurabili se consideriamo ciò che abbiamo dovuto affrontare nell’anno terribile 2021.
Console gaming
Un fenomeno simile a quello che ha investito il mercato delle schede video è riconducibile alle dinamiche di crisi di disponibilità delle console gaming, in cui chip shortage e pandemia Covid-19 hanno nuovamente combinato la loro micidiale azione ai danni dei consumatori finali.
Il 2020 ha infatti visto l’arrivo della nona generazione di console, quando Sony ha lanciato la sua Playstation 5 (PS5) e Microsoft la Xbox Series S e la Xbox Series X. I lockdown hanno inoltre causato la sensibile crescita del mercato gaming, dal momento che la maggior parte del pubblico di questo mercato, composto in maggioranza da giovani, si è ritrovata chiusa in casa.
Per quanto riguarda la componentistica interna, sia Sony che Microsoft utilizzano tecnologie AMD, i cui chip sono composti in prevalenza dalla taiwanese TSMC, che ha dovuto per forza di cose razionare le forniture, costringendo i due colossi del gaming a limitare la produzione di console a numeri ben inferiori rispetto alla domanda proveniente dal mercato, famelicamente attratto da una console di nuova generazione.
Questo fenomeno si è fatto particolarmente sentire nel caso delle PS5, che viene venduta soltanto online presso i canali dei vendor, puntualmente presi d’assalto alla notizia di nuove disponibilità di arrivi. Il problema si è aggravato a causa del fatto che molti acquirenti, definiti scalper, continuano ad acquistare nuove PS5 per rivenderle a prezzi decisamente maggiorati nei vari marketplace dell’usato. Si tratta di un fenomeno che né Sony, né tantomeno i vendor, sono mai riusciti a limitare, anche per via di uno scarso interesse a farlo, dal momento che le vendite di tutti i restock continuano ad andare puntualmente esauriti nel giro di pochi minuti, e sarà così almeno per tutto il 2022.
Meno critica la situazione per Nintendo, che non aveva in previsione l’uscita di nuove console, se si eccettua la versione OLED della sua Switch, arrivata sul mercato però soltanto alla fine del 2021. In ogni caso, anche Nintendo ha dovuto ridurre sensibilmente i volumi di produzione, da 30 a 24 milioni di pezzi all’anno, andando in contro a momentanei fenomeni di shortage sugli scaffali fisici e virtuali degli store videoludici. Nintendo è riuscita a mantenere prezzi prossimi a quelli di listino, allungando la vita generazionale della sua Switch, una console di grandissimo successo commerciale, come dimostra anche la stabilità dei prezzi sul mercato dell’usato, mai così prossimi a quelli del nuovo.
Lo chip shortage ha infatti influito in maniera molto robusta sull’andamento dei prezzi dell’usato, anche per quanto riguarda le console della precedente generazione, nonostante Sony abbia deciso ad esempio di incrementare i volumi di produzione della PS4 e della PS4 Pro, anziché avviarle verso il fine vita, come originariamente previsto. Per rendere il concetto, a Natale 2019 una PS4 Slim di ultima generazione si trovava nuova in offerta a 149 euro. Nel marzo 2020, con la diffusione della pandemia, sotto i 200 euro era praticamente impossibile recuperare un usato, mentre il nuovo è rimasto saldamente ancorato al prezzo di listino di 299 euro. Dinamiche analoghe hanno interessato la sorella maggiore, la PS4 Pro, mentre la PS5, che di listino costa 499 euro veniva proposta dagli scalper ad una cifra variabile tra i 750 e i 1200 euro.
Si tratta di dinamiche piuttosto anomale, per non dire impazzite, regolate dall’andamento della domanda e dell’offerta, da cui sarà difficile recuperare una situazione di normalità fino a quando non verrà definitivamente risolta la crisi dei chip.
Chip shortage, la situazione europea: basteranno le promesse del European Chip Act?
Lo scorso 8 febbraio la Commissione europea ha approvato lo European Chip Act, che costituisce a tutti gli effetti la legge europea sui semiconduttori. Prendendo atto che nel solo 2020 sono stati fabbricati oltre 1000 miliardi di chip, una quota pro capite di 130 unità per ogni abitante del pianeta, per costruire la maggior parte degli oggetti e dei dispositivi di comunicazione di cui disponiamo per lavorare e svolgere le attività della vita quotidiana, gli effetti di una crisi globale non sarebbero sostenibili a lungo termine. E ciò vale in particolar modo per una contesto come quello europeo, che a differenza di quello americano e quello asiatico non è in grado di far fronte alle proprie esigenze contando sulle risorse collocate sul continente. Ridurre la produzione può essere la soluzione temporanea, ma nessuno può permettere che diventi una prassi di lungo periodo, in quanto tale trend avrebbe una ricaduta devastante sull’innovazione dei processi e dei mercati necessaria per garantire la crescita dell’intero sistema economico.
Allo stesso tempo, lo chip shortage, e la relativa riduzione dei consumi, non equivale nemmeno ad una maggior sostenibilità dal punto di vista ambientale, in quando globalmente si lavora peggio anche sotto questo punto di vista, ad esempio rimandando l’entra in funzione di metodi di produzione più efficienti dal punto di vista energetico.
Tra gli obiettivi dichiarati dal European Chip Act vi è l’impegno di raggiungere e mantenere entro il 2030 il 20% del mercato mondiale, raddoppiando il 10% attuale, per limitare l’impatto sul nostro sistema produttivo delle forniture oggi provenienti in gran parte dal sud-est asiatico. L’Europa è notoriamente forte in comparti come la progettazione e il design dei chip e dei circuiti, ma non è autosufficiente per quanto riguarda le fasi successive, ossia la produzione, l’assemblaggio e il packaging.
Questa settorializzazione ha causato, in taluni casi, una grave crisi di produzione per le nostre aziende, che si sono dimostrate poco resilienti nei confronti dello chip shortage globale. Non soltanto non c’era il piano B, ma già il piano A manifestava evidenti criticità da quando ha deciso di esternalizzare totalmente la produzione, l’assemblaggio e il packaging in paesi dove i costi relativi a questi processi sono sensibilmente inferiori rispetto l’equivalente europeo.
Per raggiungere l’obiettivo del 20% il European Chip Act identifica cinque obiettivi strategici:
- Rafforzamento della leadership europea nella ricerca sui chip, in particolare per le tecnologie di miniaturizzazione;
- Potenziamento della capacità di innovazione nella progettazione, produzione, assemblaggio e packaging dei chip avanzati;
- Crescita delle competenze con il potenziamento dei programmi di formazione;
- Coinvolgimento di competenze extra UE e collaborazioni nella ricerca a livello internazionale;
- Campagne di comunicazione per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza dei semiconduttori, affinché l’argomento diventi di dominio pubblico, superando l’ambito di nicchia tematica che storicamente li contraddistingue.
Il European Chip Act prevede un importante impegno economico per raggiungere l’ambizioso obiettivo in scadenza nel 2030. 15 miliardi di euro risultano infatti già stanziati in programmi come Horizon Europe e Digital Europe, con l’ulteriore precisazione che li destinerà nello specifico al settore dei chip. A tali programmi europei, già strutturati, si aggiungeranno ulteriori fondi, messi a disposizione dai paesi membri dell’unione, per raggiungere una disponibilità complessiva di 43 miliardi entro l’anno 2030, senza escludere la possibilità di reperire nel frattempo ulteriori risorse, qualora derivanti dalle progettualità che verranno implementate a livello comunitario.
Il European Chip Act prevede una serie di misure relative alle modalità di condivisione e accesso ai dati derivanti dalla progettazione, prototipazione, testing e sperimentazione su larga scala dei chip nell’ambito dei programmi finanziati dai fondi europei. Particolare attenzione è dedicata alla certificazione di chip efficienti dal punto di vista energetico, integrandosi con le disposizioni dei programmi comunitari in merito alla transizione energetica.
Un fattore fondamentale, come approfondiremo nel corso dell’ultimo paragrafo di questo approfondimento, è inoltre costituito dall’impegno che il European Chip Act intende dedicare per sostenere la nascita e la crescita di start-up e aziende nel settore della microelettronica, favorendo inoltre la creazione di grandi impianti di produzione sul territorio europeo, anche in collaborazione con i più importanti brand a livello internazionale, con misure di co-partecipazione e accordi di partenariato utili a sostenere sotto vari aspetti la sovranità europea dei chip.
La lotta allo chip shortage nella ricerca di nuove alleanze: verso la nuova giga factory europea di Intel
La soluzione ai limiti strutturali che interessano la produzione europea dei chip ben difficilmente può arrivare soltanto da start-up o dalle nuove realtà industriali, che saranno tuttavia fondamentali sul fronte dell’innovazione continua, contribuendo a mantenere l’Europa ai vertici in termini di eccellenza nella ricerca di nuovi chip, sempre più evoluti a livello funzionale e sostenibili a livello economico ed ambientale.
I chip attualmente in produzione e quelli previsti nel futuro prossimo saranno tuttavia costruibili soltanto se si dispone di brevetti molto specifici, che derivano da molti anni di evoluzione della ricerca e sviluppo sui semiconduttori finalizzata alla produzione per enormi volumi di vendita. Per dirla in altri termini, un processo produttivo a 5nm o a 7nm non si improvvisa e gli impianti necessari hanno costi decisamente elevati, di esclusiva portata della grande industria.
In Europa c’è soprattutto carenza di big player, dal momento che la popolarissima ARM, oltre ad essere britannica ed ormai extra UE, costituisce un’architettura, non un produttore. Il primo manufacturer a tutti gli effetti avente sede in Europa è il gruppo italo-francese STMicroelectronics, al momento indicato quale 11esimo produttore mondiale. Altri produttori, come l’olandese Nxp Semicondutors, contribuiscono in maniera importante, ma ben lungi dal soddisfare la domanda complessiva delle industrie del vecchio continente. Come già precisato, la produzione europea dei chip non arriva al 10% del valore globale, un segnale di negligente ritardo, soprattutto se confrontata con l’effettivo fabbisogno interno.
Gli stati europei possono quindi contribuire con i loro fondi, ma non risolvere in totale autonomia il problema. Almeno nel medio periodo avranno ancora bisogno di alleati a livello internazionale.
La soluzione per la sovranità europea dei chip arriva dalla collaborazione a condizioni speciali con i leader tecnologici internazionali, a partire da Intel, che da diverso tempo sta valutando la produzione di nuove giga factory in varie nazioni d’Europa, tra cui l’Italia, la cui produzione dovrebbe essere rivolta in prevalenza al soddisfacimento del mercato europeo.
Si tratta certamente di una buona notizia sul fronte occupazionale, che andrà tuttavia verificata nel merito degli accordi specifici che stabiliranno le convenzioni sulla base delle quali l’Europa agevolerà finanziariamente l’approdo del gigante americano. Ad oggi non abbiamo a disposizione i dati per fare alcuna previsione in merito all’effettiva capacità di produrre chip in funzione del soddisfacimento del mercato interno.
Per ora rimane la certezza che si tratti di misure tardive, che costringono all’intervento quando il danno è già ampiamente manifesto nello scenario economico europeo, che si è dimostrato molto fragile ogni qualvolta abbia inciso l’assenza di un comparto di produzione locale. La perenne dipendenza dall’industria asiatica e statunitense ha fatto si che l’industria europea abbia oltremodo sofferto il fenomeno dello chip shortage, con effetti decisamente prolungati rispetto ai ritardi logistici causati dalla pandemia. Oltre alla mancata disponibilità, la crisi dei chip si riflette in modo tangibile sui costi delle forniture stesse, contribuendo all’aumento dei prezzi di mercato e al generale aumento dell’inflazione.
Gli attuali provvedimenti, qualora si rivelino utili nel dare luogo a supply chain realmente sostenibili ed autonome dagli effetti della globalizzazione della fornitura dei chip, richiederanno comunque anni prima di essere in grado di offrire benefici tangibili per il sistema economico ce produttivo del vecchio continente.