Il fenomeno chip shortage, ossia la scarsa disponibilità dei chip a livello globale, ha penalizzato duramente la produzione di molte industrie.
A lungo imputato alla pandemia, le radici del problema chip shortage si annidano almeno dal 2019, a fronte di una convergenza di fattori che ha portato ad una clamorosa crescita della domanda a fronte di una oggettiva difficoltà dei produttori di soddisfarla, soprattutto per quanto riguarda alcuni mercati particolarmente famelici di chip, come quello automotive.
Sul piano di quella che da noi è stata definita la crisi dei chip, oggi le cose paiono andare un po’ meglio.
Alcuni dei principali attori del mercato intravedono la proverbiale luce in fondo al tunnel, ma se l’aspetto produttivo sembra orientato verso una possibile soluzione, le dinamiche globali a livello IT continuano a prospettare un quadro preoccupante, soprattutto a fronte di altri fenomeni, intervenuti nel frattempo: il clamoroso e generalizzato aumento di prodotti e servizi IT e una domanda di mercato che, a fronte di alcuni fenomeni di recessione dopo il boom del periodo Covid, inizia a mostrare preoccupanti segnali di flessione, che fanno vacillare la fiducia dei mercati.
Per chi non avesse seguito nel dettaglio la vicenda chip shortage negli ultimi anni, ricordiamo che per chip shortage, o crisi dei chip, si intende il fenomeno globale che ha colpito le industrie che producono semiconduttori e tutta la loro filiera di clienti, ritrovatisi a corto della materia prima indispensabile per completare l’assemblaggio dei loro prodotti.
Per tale ragione, anche a livello consumer, abbiamo assistito a ritardi clamorosi rispetto alle tempistiche a cui eravamo abituati. Alcune tipologie di merci sono diventate addirittura irreperibili o legate a tempistiche di consegna senza alcuna garanzia da parte del venditore, in quanto la crisi ha coinvolto praticamente tutta l’industria tecnologica, che non può logicamente prescindere dai chip di silicio, componenti chiave di qualsiasi dispositivo elettronico moderno.
Le crisi legate al chip shortage non costituiscono una novità in senso assoluto. Un clamoroso aumento della domanda aveva già causato diverse criticità nel lontano 1988, in un contesto decisamente meno digitale rispetto a quello che viviamo attualmente. Nel 2000 ricordiamo un problema simile, dovuto però in particolar modo ad un problema specifico di Intel.
Negli ultimi anni la crisi di produzione ha coinvolto soprattutto il Giappone (terremoto del 2011) sudest asiatico (frequenti inondazioni degli stabilimenti), coinvolgendo anche prodotti come memorie RAM, SSD, HDD e tecnologie display, ciclicamente soggetti a problemi di scarsa disponibilità, che si riflette direttamente sul prezzo finale, spesso almeno raddoppiato per periodi più o meno prolungati.
Per TMSC il problema chip shortage è superato, ora incombe il timore di una generale sovraproduzione di chip
In merito ad una discussione nata nel contesto della perdurante scarsità delle console PS5, dove Sony non riesce a sostenere la domanda anche a fronte ad un mercato sensibilmente inquinato da scalper e speculatori terzi, TMSC ha reagito con una dichiarazione che ha finito per sorprendere un po’ tutti, ossia il fatto che AMD, fornitore di Sony e tra i principali clienti del produttore di chip taiwanese, avrebbe i magazzini pieni di chip.
Commentando gli ottimi risultati del periodo finanziario Q2 2022, il CEO di TMSC, C.C. Wei ha prospettato addirittura possibili criticità legate ad eccessi di produzione: “Gli investitori sono preoccupati per il potenziale eccesso di chip presenti sul mercato: i livelli di scorte potrebbero rivelarsi elevati, se dovessero confermarsi le previsioni di una domanda più debole. Ciò potrebbe avere conseguenze sui prezzi dei semiconduttori. Riteniamo che l’attuale fase del mercato dei semiconduttori attraverserà alcuni trimestri di aggiustamento delle scorte, che probabilmente dureranno fino alla prima metà del 2023”.
I dati fiscali di TMSC sono a dir poco positivi. Il Q2 2022 è stato chiuso a 18,1 miliardi di fatturato, con previsioni per il Q3 2022 comprese tra i 19,8 e i 20,6 miliardi di dollari, in sensibile aumento rispetto allo stesso periodo nel 2021, quando TMSC aveva registrato a consuntivo una quota di 14,8 miliardi. La previsione di crescita su base annua, nel momento in cui scriviamo, sarebbe pari al 43,5%.
A sorprendere ancora di più sarebbe il parametro relativo all’utile netto, la cui crescita su base annua è stimata nell’ordine del 76,4%, anche se in questo caso gli entusiasmi potrebbero essere improvvisamente raffreddati dalla continua crescita dell’inflazione e il continuo calo della domanda di alcuni mercati in ambito IT, come quello che riguarda i settori PC e mobile. La coincidenza di questi fattori penalizzanti potrebbe in effetti far si che i magazzini di chip si ritrovino ad essere ben più pieni del previsto, invertendo uno scenario di chip shortage generalizzato ormai da diverso tempo.
In realtà, occorre fare una precisazione, che motiva la parte finale della dichiarazione di C.C. Wei, in cui si sofferma su un periodo di “aggiustamento” che potrebbe durare almeno fino al 2023, quando il flusso domanda-offerta dovrebbe in qualche modo assumere un andamento più regolare e prevedibile da parte dei produttori di chip, che nel frattempo hanno rallentato la corsa alla realizzazione di nuovi stabilimenti, all’origine pianificati per sostenere i volumi di una domanda che ora si fa sempre più incerta.
I settori più critici sono quelli dei chip più semplici, come i già citati ambiti del mercato IT per PC e mobile. Laddove si richiedono chip più avanzati e complessi per quanto riguarda la filiera produttiva, come nel caso dei settori automotive e data center, la domanda dovrebbe rivelarsi molto più stabile.
I produttori IT retail al momento hanno accolto la notizia con una prudenza e un velo di ottimismo, soffermandosi sulla generale sensazione che, comunque si intenda procedere, la crisi dei chip, almeno sul fronte della disponibilità, starebbe volgendo verso una fase decisamente meno drammatica rispetto a quella vissuta negli ultimi due anni.
Bracken Darrell, CEO di Logitech, nel corso di una recente intervista all’agenzia Reuters, focalizzata sull’analisi dei risultati del più recente periodo fiscale, ha dichiarato: “La crisi dei chip non può dirsi del tutto superata, ma i sintomi di una mitigazione ci sono. Credo che ne usciremo finalmente entro il quarto periodo fiscale (nel caso di Logitech coincide con il 31 marzo del 2023, NdR)”.
Chip shortage, nel dubbio, dal 2023 TMSC aumenterà i prezzi dei chip
Secondo quanto riportato dal taiwanese DigiTimes, TMSC, forte della sua straordinaria leadership di mercato, avrebbe annunciato l’intenzione di voler aumentare i prezzi dei propri semiconduttori a partire dal 2023, una scelta che, secondo alcune indiscrezioni, finora non commentate ufficialmente, potrebbe essere condivisa anche da Intel per quanto riguarda le sue celebri CPU.
Tale eventualità dovrebbe verificarsi quando TMSC inizierà a realizzare i chip basati sul processo produttivo a 3 nm, avviando la ricerca sulla successiva generazione, che prevede una tecnologia a 2 nm. Il parco clienti di TMSC prevede la quasi totalità dei vendor di hardware informatico a livello globale, tra cui figurano anche la stessa Intel, AMD, Apple, Qualcomm, Mediatek e in particolar modo NVIDIA, che sta svolgendo importanti investimenti sulle tecnologie legate ai data center.
Per i produttori di tecnologia hardware non saranno pertanto tempi facili. Per sostenere ritmi di produzione importanti dovranno effettuare scelte coraggiose, considerando la continua crescita dei costi legati all’energia e le continue incertezze a livello di supply chain e di domanda di mercato, che stanno raffreddando notevolmente l’entusiasmo degli investitori. Non si esclude che diversi produttori, che attualmente fanno riferimento a TMSC, possano rivolgere le loro attenzioni altrove, sondando con attenzioni sempre più morbose il mercato cinese.
Per quanto riguarda TMSC, i rincari non sarebbero in particolar modo dovuti agli effetti dell’inflazione o a particolari intenzioni speculative. Sarebbe più facile vederli come orientati a sostenere senza passivi diretti l’avvio e la ricerca sui nuovi processi produttivi, almeno fino a quando non si conosceranno gli effettivi numeri del problema.
I prezzi di TMSC riservati ai suoi principali clienti potrebbero nuovamente normalizzarsi nel corso degli anni che seguiranno, quando i nuovi processi produttivi entreranno a pieno regime su larga scala. Su questo aspetto, al di là di varie indiscrezioni, non vi è tuttavia alcuna certezza. E non potrebbe altrimenti esservi, dal momento che la situazione globale varia in continuazione, oltre a non portare, da diverso tempo a questa parte, notizie particolarmente positive sul fronte dei mercati finanziari.
Per quanto riguarda TMSC le prospettive sarebbero in qualsiasi caso decisamente rosee. Secondo quanto riportato in primavera da C.C. Wei a Taiwan News: “Lo sviluppo di N2 (tecnologia a 2 nm, NdR) è ben indirizzata, compresa la nuova struttura per realizzare i transitor. Siamo in linea con l’avvio della produzione entro il 2025, secondo i nostri piani”.
Per Intel la crisi dei chip durerà almeno fino al 2024
Se TMSC non sa più dove metterli, Intel continua a ritenere che la crisi dei chip sia tutt’altro che risolta, prospettando che i problemi di approvvigionamento dureranno certamente almeno fino al 2024.
Il CEO di Intel, Pat Gelsinger, ha recentemente dichiarato a CNBC come il problema non sia tanto produrre chip, il cui volume potrebbe appunto essere attenuato dalla prevista riduzione della domanda complessiva, ma produrre alcuni componenti legati alla loro supply chain: “Pensavamo che la crisi potesse risolversi entro il 2023, ma ora le carenze di semiconduttori a livello globale dureranno almeno fino al 2024, in quanto è intervenuta una scarsa disponibilità di parte dell’equipment che utilizziamo nei nostri processi produttivi”.
I dati fiscali relativi al secondo quarto del 2022 non si sono rivelati del tutto in linea con le aspettative per quanto riguarda Intel, indicando buoni valori di crescita, ma non così buoni come quelli che rientravano nel quadro previsionale degli analisti, per un mercato più che mai al centro delle attenzioni. Questa incertezza avrebbe almeno in parte deluso la fiducia degli investitori verso il colosso dei chip californiano, portando al generale ribasso delle azioni di Intel a Wall Street a cui stiamo assistendo in questo periodo.
Chip shortage, i Chip Act americani ed europei: tante promesse, per ora impossibili da valutare
Allargando l’orizzonte al fronte politico che influenza il mercato dei chip, l’amministrazione Biden ha da tempo previsto il celebre CHIPS for America Act per cercare di affrontare il problema chip shortage. Oltre a richiamare l’unità tecnologica, CHIPS è diventato l’acronimo di Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors, un altro dei famosi slogan che piacciono tanto agli americani. La misura prevede un fondo molto consistente, pari a 52 miliardi di dollari, stanziabili in cinque anni, a sostegno delle aziende che decideranno di investire direttamente sul territorio americano per favorire la resilienza industriale e l’occupazione nel contesto della produzione dei chip.
Tra gli obiettivi di CHIPS for America Act vi è la rilocalizzazione almeno di parte della produzione che le dinamiche della globalizzazione hanno portato verso i territori asiatici, per ricostruire una leadership, quella manifatturiera, che negli ultimi anni si è smarrita, facendo emergere una serie di criticità latenti, a cominciare dalle difficoltà a soddisfare il mercato interno, in particolare quello legato all’industria automobilistica.
La domanda di misure strutturali, ancor prima che dai produttori di chip, sarebbe infatti arrivata sul tavolo dell’amministrazione Biden proprio da parte dei brand automotive, alle prese con una crisi di sottoproduzione senza precedenti.
I tempi del provvedimento, per varie ragioni, tra cui va ricompresa la guerra russo-ucraina, stanno andando per le lunghe, ben oltre i termini previsti, finendo per spazientire più di una volta il presidente americano, almeno sul fronte mediatico. L’amministrazione Biden è nel frattempo riuscita a chiudere dei pre-accordi con TMSC e Samsung per aprire nuovi stabilimenti di produzione dei chip sul territorio Americano.
Gli effetti di queste importanti politiche di sostegno che il governo americano sta portando avanti si vedranno quindi nel medio termine, ragion per cui le previsioni di Pat Gelsinger, per quanto interpretate negativamente dagli analisti, potrebbero rivelarsi ancora una volta più ottimiste rispetto alla realtà che ci aspetta nel breve periodo.
Nel frattempo, come ampiamente prevedibile, il European Chips Act, che prevede un fondo di 43 miliardi di Euro per cercare di sostenere la sovranità europea nel mercato dei chip, passando da un volume di produzione del 10% al 20% a livello globale, sta facendo inevitabilmente i conti con problemi legati alle economie di scala. Manca un vero leader tecnologico, in grado di trascinare la ripresa del comparto.
Nel caso dell’Europa, la situazione si prospetta decisamente differente rispetto a quella statunitense. Del resto, appare improbabile recuperare in breve tempo gli effetti di trent’anni di continui cali di investimento nel vecchio continente, a favore del continuo delegare alla produzione asiatica, più conveniente sul piano del conto economico, ma scarsamente resiliente e puntualmente crollata di fronte alla prima crisi globale.
Oltre a sostenere un settore florido come quello della ricerca, l’Europa dovrà pertanto attirare sul proprio spazio economico i leader tecnologici americani ed asiatici interessati ad aprire nuovi stabilimenti, con accordi mirati a favorire l’occupazione comunitaria e il sostegno della domanda dei paesi europei.
Alcuni di questi importanti accordi sarebbero già stati raggiunti, in particolar modo per quanto riguarda Intel, in un progetto di ampio respiro che vede coinvolta anche l’Italia. Tornare a produrre chip in Europa e per l’Europa sarà quindi il primo obiettivo che la Commissione cercherà di sostenere, promuovendo le relative azioni di governo e il recepimento strategico da parte dei singoli paesi membri.
Il curioso caso delle PS5: per Sony PlayStation lo shortage della console durerà almeno fino al 2024, ma potrebbero aumentare i prezzi
Dopo il rinvio al 2023 del PSVR2, evoluzione per PS5 del visore in realtà virtuale di Playstation, arriva la conferma che il gigante nipponico, almeno fino al 2024, prevede di non riuscire a far fronte all’incredibile domanda che continua ad interessare la quinta generazione della sua più importante console gaming.
Il PS5 shortage, con buona pace e disagio per i giocatori di tutto il mondo, è quindi destinato a durare. Dal canto suo, per compensare almeno in parte il problema, Sony continua a produrre anche le PS4, ossia le console di precedente generazione, che continuano ad essere vendute con ottimi numeri, senza riscontrare da molti mesi alcun taglio dei prezzi.
In attesa di scoprire quando effettivamente la situazione potrà normalizzarsi, il primo problema di Sony sarebbe per assurdo proprio quello di colmare il gap di vendite che tuttora insiste tra PS4 e PS5, per entrare nella prospettiva di pensionare in via definitiva la quarta generazione, una volta che i ritmi di produzione della PS5 finalmente lo consentiranno.
Le previsioni di Sony farebbero quindi il paio con quelle, già citate, di Intel.
Anche se, lato AMD, brand che fornisce la tecnologia per le unità CPU e GPU dell’ultima Playstation, la disponibilità starebbe oggettivamente migliorando, la complessa supply chain impiegata da Sony per realizzare la sua PS5 continua a riscontrare difficoltà a seguito dei continui lockdown asiatici e alle conseguenze dirette ed indirette del conflitto russo-ucraino.
Si tratta infatti di dinamiche che stanno mettendo in difficoltà diversi suoi fornitori, senza che il colosso nipponico possa fare più di tanto per porvi una pezza. A complicare le cose sempre lato chip shortage ci stanno pensando gli scalper, ossia coloro che acquistano a prezzo di listino attraverso i vari restock, per rivendere successivamente il prodotto a prezzi maggiorati attraverso i canali online come Ebay ed altri marketplace dell’usato.
Fino a quando i consumatori continueranno a dare corda a questo fenomeno, è del resto difficile aspettarsi che questa fastidiosa pratica possa subire delle mitigazioni. Sony non ha finora trovato una valida contromisura al fenomeno dello scalping. Anche se questa evidenza non mette Sony sotto una buona luce nei confronti dei consumatori, pur di ottenere la console, questi ultimi continuano ad acquistare dagli scalper, per cui si è generato un circolo vizioso ormai difficile da correggere.
Ovviamente, i limiti nelle vendite della PS5 creano un collo di bottiglia su tutto l’indotto, creando evidenti difficoltà anche ai team di sviluppo dei titoli dedicati alla console di casa Sony, che per sopravvivere devono continuare a prevedere, anche nelle roadmap future, i titoli anche nelle versioni per PS4, oltre a dover rimandare alcune esclusive, si pensi a quelle dedicate al già citato PSVR2.
Ad oggi Sony, per sostenere i grandi numeri del suo business, sta di fatto utilizzando la PS5 come una forma di investimento per il proprio futuro, a garanzia di continuità per un fatturato che continua ad essere solidamente imperniato su una console gloriosa come la PS4, uscita ormai nel lontano 2013 e da tempo capace di scollinare il muro dei 100 milioni di unità vendute.
Chip shortage e automotive: torna l’ottimismo, soprattutto da parte dei produttori tedeschi
Il mercato che è stato colpito più duramente dal fenomeno del chip shortage è stato l’automotive, data la straordinaria quantità e varietà tecnologica presente sulle autovetture di ultima generazione.
Negli ultimi due anni i brand automotive hanno costretto i propri clienti a lunghe attese, oltre a dover rivedere i progetti di alcuni dettagli, eliminando alcune parti e funzioni per cercare di bypassare e limitare almeno in parte la quantità di chip prevista per ogni autovettura. In particolare, tali accorgimenti sono stati adottati per eliminare i processi più critici.
Non bisogna infatti dimenticare che è sufficiente la carenza di un solo elemento per fermare l’assemblaggio finale di una vettura, mettendo in stand-by l’intero processo e costringere i canali di vendita a lungaggini sempre più importanti sui tempi di consegna.
Conversando sul tema con Bloomberg, Karin Radstrom (Mercedes) ha ammesso che sarebbero in atto importanti miglioramenti, rispetto alla situazione drammatica dei recenti trascorsi: “La situazione non è ancora ottimale ma è decisamente migliore rispetto all’anno scorso. Non vorrei festeggiare troppo presto ma le cose stanno finalmente migliorando, anche se monitoriamo con grande attenzione l’evolversi della situazione”.
Secondo Joerg Burzer, responsabile produzione e approvvigionamento di Mercedes: “Attualmente non abbiamo problemi a gestire la produzione in tutto il mondo. Non capitava da diverso tempo. Ci sono occasionali difficoltà di approvvigionamento, ma niente di paragonabile con quanto abbiamo visto nel 2021”. Anno in cui la stessa Mercedes, per compensare alla scarsa disponibilità di alcuni componenti, aveva più volte fatto ricorso ad alternative più onerose. Una pratica seguita da altri brand, tra cui Ford.
Secondo Harry Wolters, presidente di DAF Trucks: “Siamo finalmente riusciti ad accelerare la produzione sia in Europa che negli Stati Uniti, avendo ottenuto forniture più rapide rispetto a quelle che ci aspettavamo soltanto 5 o 6 settimane fa”. Più cauti i colleghi di Volvo Trucks, secondo cui in termini di consegna non sarebbe cambiato sostanzialmente nulla, dal momento che i tempi medi di attesa per alcuni componenti continuerebbe a rimanere nell’ordine delle 28 settimane, sette lunghissimi mesi dal momento dell’ordine.