Cina microchip e grandi tensioni internazionali. La guerra commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina sta assumendo contorni sempre più globali, una dinamica sempre più evidente per quanto concerne il mercato dei microchip, che rischia di generare nuovi fenomeni di shortage in grado di influire negativamente sulle forniture delle più importanti industrie tecnologiche.
Da un lato ritroviamo un occidente che, mentre cerca faticosamente di rilanciare la propria resilienza, potenziando i comparti locali (qui le ultime sugli investimenti di Intel in Europa) , prova a limitare lo strapotere produttivo cinese rallentando il suo accesso alle tecnologie utili per fabbricare i processori. Il governo di Pechino non ha ovviamente accettato passivamente la situazione, rispondendo con una serie di limitazioni all’export della materia prima verso i paesi occidentali.
Gli attori del mercato IT assistono all’evoluzione dello scenario conflittuale con viva preoccupazione, in quanto il rischio chip shortage rischia di rallentare ancora una volta le supply chain dell’industria tecnologica, a cominciare da quella automotive, già duramente provata dalla pandemia e dall’incapacità di soddisfare il consistente aumento della domanda proveniente dal comparto dei veicoli a trazione elettrica.
La guerra dei microchip rischia di esterne gli schemi del conflitto ben oltre gli interessi economici di Stati Uniti e Cina, influenzando negativamente i progressi dell’intelligenza artificiale, delle infrastrutture di connettività (5G), oltre ai comparti dell’industria militare, aerospaziale e medicale.
In attesa che gli analisti producano studi e previsioni sugli impatti che le recenti vicende potranno comportare sui vari mercati, vediamo pertanto cosa sta accadendo alla produzione globale dei microchip e quali potrebbero essere gli scenari più probabili almeno in una prospettiva di breve termine.
Cina microchip, il casus belli: le mosse dell’amministrazione Biden
Sullo sfondo delle forti tensioni geopolitiche per Taiwan, Stati Uniti e Cina proseguono una guerra commerciale sempre più dura, a colpi di restrizioni ed embarghi, finalizzati a rallentare il progresso dell’avversario soprattutto per quanto concerne le attività più critiche dello sviluppo economico e militare.
Preso atto di questo contesto, appare naturale come il presidente cinese Xi Jinping, nel contesto del discorso di apertura del Congresso del Partito Comunista Cinese, incentivi all’aumento degli sforzi utili per sviluppare autonomamente tecnologie fondamentali a livello economico e militare, in gran parte basate sulla fabbricazione dei microchip.
Pochi giorni prima, gli Stati Uniti, avevano annunciato la volontà di limitare l’esportazione verso la Cina di chip avanzati e soprattutto della tecnologia necessaria per produrli, con il chiaro intento di rallentare lo sviluppo tecnologico cinese, oltre a penalizzarne la presenza sui mercati a tutto vantaggio dei brand statunitensi.
La portata delle restrizioni annunciate dal governo Biden appare potenzialmente devastante anche per un paese produttivamente molto solido come la Cina, in quanto si tratta di iniziative volte a negare quasi totalmente l’accesso alle tecnologie indispensabili per sviluppare le intelligenze artificiali e l’high performance computing.
La motivazione del governo Biden fa leva soprattutto sull’atteggiamento aggressivo che il governo cinese sta adoperando nei confronti di Taiwan, con l’obiettivo di limitare all’approvvigionamento di chip utili all’industria militare, che Pechino potrebbe utilizzare per sviluppare nuove tecnologie balistiche, come i famigerati missili ipersonici.
Tale posizione è stata ben espressa da Jack Sullivan, consulente per la sicurezza del governo americano: “I principali segreti per le tecnologie fondamentali devono restare all’interno del nostro cortile e il recinto che li difende deve essere molto alto, perché i concorrenti non possano sfruttare tecnologie dell’America e dei suoi alleati per mettere a rischio la sicurezza stessa dell’America e dei suoi alleati”.
I malcelati secondi fini mirano a limitare lo strapotere produttivo cinese e salvaguardare l’attività delle aziende statunitensi. Altri player nell’ambito della produzione delle tecnologie per la produzione dei microchip, in particolare quelli attivi nel comparto asiatico, come la stessa Taiwan, Corea del Sud e Giappone hanno invece manifestato un certo scetticismo nell’adozione di misure così drastiche nei confronti del gigante cinese, temendo quelle ripercussioni che si stanno puntualmente verificando su scala globale.
Un caso eccezionale è costituito dall’Olanda, che ha di fatto condiviso la posizione del governo Biden limitando le esportazioni verso la Cina ad ASML, uno specialista esclusivo nella produzione di sistemi per la produzione di semiconduttori, con sede a Veldhoven.
Per certi versi, assistiamo ad una dinamica molto più dirompente rispetto a quella che aveva portato l’amministrazione Trump a stabilire una serie di misure di embargo tecnologico nei confronti di Huawei ed altri player cinesi attivi nell’ambito del 5G. La lista dei provvedimenti enunciata dal governo Biden appare molto più robusta in quanto coinvolgebbe:
- divieto di vendere ad aziende cinesi chip avanzati prodotti in America
- divieto di vendere chip avanzati prodotti in paesi terzi, con tecnologia americana
- divieto a ogni azienda del settore che voglia avere rapporti commerciali con gli Stati Uniti di vendere tecnologie a un insieme di aziende che appartengano alla “Lista Non Verificata” che comprende oltre 500 aziende cinesi
- divieto ai cittadini americani di lavorare per aziende cinesi del settore dei semiconduttori.
Tali provvedimenti hanno avuto l’appoggio bipartisan degli schieramenti democratici e repubblicani ed è stata proprio la minoranza a chiedere misure ancora più restrittive. L’amministrazione Biden ha temporaneamente concesso a Intel e Samsung alcune liberatorie per rifornire le proprie sedi cinesi, ma ha contestualmente annunciato che non verranno concesse deroghe rispetto ai provvedimenti annunciati, anche se verranno esaminate tutte le richieste di eccezione.
Cina microchip, limitazioni all’esportazione di Gallio e Germanio
I provvedimenti dell’amministrazione Biden non hanno ovviamente lasciato indifferente il governo cinese, che da un lato ha lamentato una vera e propria azione di sabotaggio da parte degli Stati Uniti nei confronti di moltissime attività legate allo sviluppo del gigante asiatico, che spaziano dalle tecnologie militari, alla robotica, a tutto il comparto di controllo della popolazione, a cominciare da internet e dai social network, dove sono da sempre in atto misure particolarmente stringenti e censorie. Attraverso le limitazioni, il governo americano ha inoltre annunciato di voler contrastare, per quanto possibile, la fiorente attività di spionaggio informatico finanziata dal governo cinese ai datti dei paesi occidentali.
I divieti imposti dall’amministrazione Biden avranno ripercussioni negative sui fornitori di tecnologia americani, ma potrebbero bloccare in maniera irrimediabile l’attività di alcune aziende cinesi, con una serie di conseguenze ancora difficili da quantificare.
Non è in ogni caso mancata una significativa reazione da parte di Pechino. Seguendo una serie di motivazioni incentrate sulla sicurezza e l’interesse nazionale, il ministero del Commercio cinese ha infatti annunciato che una serie di importanti limitazioni all’esportazione di gallio e germanio, due metalli necessari per la produzione di semiconduttori utilizzati per i microchip, oltre a moltissimi prodotti tecnologici, tra cui i dispositivi informatici e gran parte dell’hardware che caratterizza i sistemi IT. Gli effetti del provvedimento sono da considerarsi attivi dal 1 agosto.
Va precisato come la Cina, a differenza degli Stati Uniti per quanto riguarda le tecnologie per la produzione dei microchip, non abbia espressamente diniegato l’esportazione di gallio e germanio, vincolandola al rilascio di un’autorizzazione governativa.
La Cina vanta una posizione prossima al monopolio per quanto riguarda due metalli piuttosto comuni, ma costosi da ottenere, in quanto sottoprodotti di lavorazioni per la produzione di altri metalli, come lo zinco e l’alluminio. Tale aspetto ha spinto altre realtà, che pur dispongono dei giacimenti necessari, a desistere dalla produzione di gallio e germanio affidandosi quasi esclusivamente a forniture cinesi. Tale dinamica manca totalmente di resilienza e consente oggi a Pechino di poter ricattare l’occidente in reazione ai provvedimenti del governo americano.
Gallio e germanio, come annunciato, sono fondamentali in vari contesti produttivi nell’ambito dell’industria tecnologica. Il gallio trova largo impiego nei semiconduttori composti, che combinano più elementi per migliorare l’efficienza di trasmissione nei display di televisori, smartphone e tablet, oltre agli schermi dei pannelli solari e dei radar.
Il germanio è invece molto utilizzato per le comunicazioni in fibra ottica, nella produzione visori notturni e nella componentistica di vari sistemi impiegati nell’esplorazione spaziale. Basti inoltre ricordare che, ad oggi, i satelliti in orbita vengono alimentati grazie a celle solari contenenti germanio.
La posizione fragile di un’Europa ancora distante dalla resilienza produttiva
La Cina è attualmente il primo produttore mondiale dei due metalli, controllando, secondo fonti UE, il 94% della produzione di gallio e l’83% della produzione di germanio. La stessa UE importa attualmente il 71% del gallio e il 45% del germanio proprio dalla Cina.
Le misure imposte dall’amministrazione Biden e la pronta reazione cinese hanno provocato un deciso sgomento nell’industria a livello globale, in quanto lasciano presagire una nuova ondata di manovre speculative non favorevoli alle strategie di sviluppo, nel contesto in cui tutti i paesi stanno cercando di sfuggire dalle tenaglie della globalizzazione, lavorando su supply chain più resilienti, in quanto basate su forniture il più possibile provenienti dal comparto locale e meno condizionate dall’iniziativa estera.
La UE sta lavorando in tal senso, con una serie di importanti provvedimenti che mirano a mettere in sicurezza l’approvvigionamento di tecnologie e di materie prime in qualsiasi modo strategiche per lo sviluppo economico. In tal senso, la UE si è dimostrata più pronta rispetto a quanto accaduto con l’emergenza del conflitto russo-ucraino, quando si innescò un aumento anomalo dell’inflazione, legato a timori che interi comparti industriali potessero collare a fronte dell’aumento dei costi e dell’incerta disponibilità di petrolio e gas provenienti dai due paesi coinvolti, entrambi importanti esportatori.
La UE sta adottando una serie di azioni per quanto concerne le terre rare e i metalli come il gallio e il germanio, ai fini di minimizzare i rischi derivanti dal monopolio cinese delle forniture. L’Unione europea sta lavorando sul Critical Raw Materials Act, un provvedimento che mira a facilitare i finanziamenti e le autorizzazioni per nuovi progetti di estrazione e raffinazione, contestualmente a nuove alleanze commerciali finalizzate a contenere per quanto possibile la dipendenza dalle forniture cinesi.
Anche in questo caso appare comunque piuttosto evidente come la UE, debole sia dal punto di vista produttivo che per quanto riguarda la disponibilità di risorse sul proprio territorio, si ritrovi ancora una volta nella morsa di politiche molto più aggressive, non a caso adottate da realtà molto più resilienti come Stati Uniti e Cina.
Si tratta di una condizione sfavorevole che deriva da una profonda sottovalutazione delle possibili conseguenze della globalizzazione, un modello economico indubbiamente conveniente dal punto di vista speculativo ma assai poco resiliente, al punto da andare in crisi di fronte ad un singolo imprevisto sulla catena di approvvigionamento.