Crisi dei chip: il futuro del computing riparte da Intel? Tutti i dettagli su un mercato su cui torniamo inevitabilmente.
La pandemia Covid-19 ha causato una crescente domanda di dispositivi informatici, a fronte di una maggior difficoltà di approvvigionamento dei componenti necessari per produrli. In particolare, a soffrire questa situazione sono stati i chip, richiesti in enormi quantità praticamente in tutti gli ambiti tecnologici, tanto da mettere in ginocchio non soltanto il mercato dell’informatica, ma anche altri settori estremamente solidi, come l’automotive, piuttosto che l’industria degli elettrodomestici, per non parlare della nuova generazione di console gaming, con l’enorme difficoltà a reperire sul mercato una PS5 piuttosto che una Xbox Series X.
Si è creata una crisi generalizzata, imprevista ed imprevedibile, che ha visto una sovrapposizione di effetti tra una contrazione nella capacità produttiva e una richiesta di ordini molto elevata a causa del lancio di molte linee di prodotti annunciati nel corso del 2020, che ha creato notevoli difficoltà nel rispettare le consegne. Si sono inoltre generati dei fenomeni speculativi, come nel caso del mercato delle schede video, che hanno raggiunto tempi di attesa
Laddove l’unica certezza pare sia il caos, come stanno reagendo i principali produttori di chip per uscire da questa situazione? In particolare, gli occhi sono puntati su Intel, marchio di riferimento e leader storico nel mercato dei processori informatici, che potrebbe approfittare di questa crisi per recuperare il terreno perduto a livello tecnologico nei confronti dei suoi principali competitor.
Quando finirà la crisi dei chip?
La prima domanda che sarebbe lecito porsi è probabilmente l’unica a cui non ha nemmeno senso dare una risposta, in quanto gli effetti a lungo termine di una crisi spesso si manifestano direttamente nel cambiamento che ne scaturisce, da cui si generano le nuove opportunità necessarie per rilanciare i mercati.
Se nel corso del 2020 alcuni componenti informatici hanno sofferto moltissimo la crisi di produzione a fronte di un notevole incremento della domanda, la situazione nel primo semestre 2021 per quanto concerne alcuni prodotti inizia a migliorare, ma globalmente pare farsi sempre più critica. Secondo una recente ricerca pubblicata da Bloomberg, i tempi medi di attesa dei chip a livello industriale continuerebbero ad allungarsi, arrivando a ridosso della preoccupante soglia dei cinque mesi dall’ordine (dati primo trimestre 2021, NdR).
Comunque si approcci la notizia, la normalizzazione delle dinamiche di approvvigionamento dei chip pare ancora lungi dall’essere raggiunta, tant’è che tutti gli analisti prevedono difficoltà almeno entro il 2022 inoltrato, stime confermate dagli stessi produttori, i diretti interessati a trovare una soluzione a questo problema epocale.
Secondo TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. Ltd), gigante asiatico fornitore di Apple, AMD e Qualcomm, la ripresa potrebbe arrivare già nel 2022, mentre NVIDIA, leader storico nel comparto GPU per il gaming e la computer grafica e, grazie all’acquisizione di ARM, attivo anche nel computing per i data center, non vi sarebbe al momento alcuna certezza, se non quella di non riuscire a coprire almeno per tutto il 2021 la domanda relativa alle schede video RTX serie 30×0, soggette a lunghissime liste di attesa ed a lungo introvabili, se non a prezzi in certi casi quadruplicati. In questo caso, oltre alle dinamiche sovra citate, ha influito moltissimo l’aumento esponenziale della domanda generata dal boom del mercato delle criptovalute, che si avvale del calcolo GPU per gli onerosi processi di mining previsti dalle prove di calcolo necessarie per validare le transazioni nella blockchain. Una voragine in cui è ovviamente finita anche AMD con le sue schede Radeon.
La crisi dei chip è stata acuita dall’emergenza Covid-19 ma sarebbe a tutti gli effetti da considerarsi strutturale, perché il ritorno ai ritmi di produzione pre pandemia non sarebbe comunque sufficiente a soddisfare la domanda di un mercato che ha sempre più fame di digitale. Oltre all’evoluzione nella ricerca, che dovrà portare ad avere processi produttivi e processori sempre più performanti, servono nuovi stabilimenti produttivi, in modo da aumentare la disponibilità complessiva dei semiconduttori necessari per costruire i componenti informatici.
Crisi dei chip. Il caso Huawei e lo stock-piling dei chip: quando piove sul bagnato
Secondo Huawei, un ulteriore “aggravante” alla planetaria crisi dei chip deriverebbe dalle discutibili sanzioni introdotte dal governo Trump, che le ha di fatto bloccato le forniture da fornitori USA, innescando uno stock-piling a catena da parte di vari colossi cinesi, tra cui rientrano anche DJI e ZTE, finiti in maniera più o meno evidente nel mirino del precedente governo americano. Si tratta oltretutto di una posizione molto spinosa, che ha in precedenza già costretto Google a negare la fornitura di Android allo stesso Huawei, che ha rimediato sviluppando un sistema operativo proprietario: HarmonyOS.
Il ban verso Huawei rappresenta una posizione da cui lo stesso Biden non parrebbe in alcun modo intenzionato a recedere, almeno nel breve periodo, e che avrebbe già causato al colosso cinese una profonda crisi economica, dovuta al tracollo dei volumi di produzione innescata dall’insufficienza della materia prima più importante: i chip. Le difficoltà di Huawei sono state confermate dalla vendita di Honor ad un pool di investitori supportato direttamente dallo stato cinese, che nell’operazione pone l’obiettivo di salvare l’occupazione del second brand di Huawei.
L’operazione ha consentito di fare cassa e soprattutto di cercare di riottenere almeno le forniture di Qualcomm, grazie alla deroga alle restrizioni in atto, con la condizione che i dispositivi interessati da tali chip non siano dotati di connettività 5G. Un’indiscrezione confermata in pieno dalle specifiche tecniche del nuovo Huawei P50, atteso a settembre con un processore Snapdragon 888 dotato di sola connettività LTE 4G. Il top di gamma P50 Pro vedrà una seconda versione, dotata del processore proprietario Kirin 9000, anch’esso, almeno inizialmente, sprovvisto di 5G.
Lo stock-piling cui fa riferimento Huawei consiste nel fare magazzino di chip per diversi mesi, in modo da garantire la continuità della produzione, compensando in questo modo le serrate da parte dei fornitori terzi vincolati dal governo americano. Prima delle sanzioni di Trump, Huawei ed altri brand cinesi non facevano magazzino, ma ordinavano correntemente sulla base delle esigenze produttive, certi di avere immediata disponibilità. Lo stock-piling avrebbe dunque contribuito ad aumentare in modo drammatico la domanda globale di chip in un periodo già critico per l’intero settore.
Verso una nuova geografia nella produzione dei chip
Se Huawei per il momento piange, l’America, verrebbe da dire, di certo non ride. Il nuovo CEO di Intel, Pat Gelsinger, nel corso di un’intervista rilasciata lo scorso 13 aprile al Washington Post (https://www.washingtonpost.com/technology/2021/04/13/intel-ceo-semiconductor-chip-shortage/), ha dichiarato come serviranno almeno un paio d’anni per riuscire a venire a capo di una situazione di crisi profonda, da cui si può uscire soltanto gradualmente. Il primo step che Intel si propone è quello di compensare entro il 2021 la grave situazione che investe il mercato automotive, avviando nel frattempo la costruzione di nuovi stabilimenti per incrementare globalmente i volumi di produzione.
La situazione di caos viene confermata, nel medesimo articolo, dalle parole di Willy Shih, docente della Harvard Business School: “Mettetevi nei panni di un produttore automobilistico alla ricerca di chip […] Quanti ne ordineresti? E ne ordineresti da produttori differenti?” sperando che provando tutte le piste possibili qualcuno riesca miracolosamente a risolvere il problema. A caos si aggiunge caos.
La crisi dei chip è diventata ben presto attuale sul tavolo della politica, anche a seguito delle forti pressioni da parte di GM e Ford, tant’è che Biden avrebbe proposito l’immediato stanziamento di 50 miliardi di dollari per sostenere la rapida costruzioni di nuovi stabilimenti per produrre chip, tra cui una quota parte destinata al settore auto. A prescindere dall’emergenza, il nodo cruciale consiste nel riportare al più presto almeno una solida quota della produzione dei chip in occidente.
Il problema ha dunque assunto proporzioni globali, in quanto i brand tecnologici occidentali, compresi quelli europei, hanno finalmente capito che legarsi unicamente alla produzione asiatica sia un boomerang destinato a ritorcersi contro anche a fronte di un semplice evento climatico sfavorevole, come le alluvioni che hanno in più circostanze messo in crisi la produzione di memorie e hard disk negli anni scorsi, con conseguenti difficoltà di approvvigionamento e lievitazione dei costi. Secondo Tom Caulfield, CEO dei GlobalFoundries: “Non dobbiamo sprecare questa crisi, ma impararne la lezione, dovremmo incrementare la produzione nel nostro paese”. Alcuni recenti rumor, non smentiti nel momento in cui scriviamo queste righe, vorrebbero GlobalFoundries in orbita di acquisizione da parte di Intel.
Attualmente gli Stati Uniti producono internamente circa il 12% dei chip a livello mondiale, ma l’obiettivo sarebbe quello di tornare quanto prima a produzione almeno il 25%, il che, in dollaroni sonanti, equivale a molto di più dell’intervento proposto da Biden. Lo stesso Shih ha inoltre fatto notare come la politica dei sussidi, anche qualora contribuisse a tamponare la crisi, non sarebbe in alcun modo risolutiva, se le aziende occidentali non riprenderanno ad effettuare solidi investimenti di tasca propria, come hanno fatto TSMC (Taiwan) e Samsung (Corea del Sud), che anno dopo anno hanno acquisito una quota sempre più dominante a livello globale.
Chi potrebbe capitalizzare al meglio questa fase di perdurante incertezza sarebbe proprio Intel, che starebbe approfittando della profonda trasformazione dello scenario per riorganizzarsi e recuperare il terreno perduto a livello tecnologico nei confronti di TSMC e dei brand competitor sul fronte dei microprocessori per i mercati pro e consumer. L’impegno a costruire due grandi stabilimenti produttivi in Arizona, con un investimento da 20 miliardi di dollari, potrebbe costituire per Intel il primo passo verso un riscatto atteso da tempo. Ma sul fronte tecnologico, come procede la ricerca e sviluppo delle CPU Intel?
Il CPU computing di Intel verso l’era Angstrom: tutte le novità fino al 2025
Pur forte della sua storica egemonia, Intel negli ultimi anni ha subito una flessione in termini di avanguardia tecnologica, soprattutto a causa della rapida crescita dei suoi competitor, che le hanno causato la perdita di alcune forniture importanti sia a livello pro che a livello consumer. Le due principali novità tecnologiche del 2020 nell’ambito dell’informatica per PC sono state senza dubbio Apple Silicon M1 e AMD Zen 3, entrambi prodotti con chip TSMC, rispettivamente con processi produttivi a 5nm e a 7nm: numeri che le roadmap di Intel non hanno ancora raggiunto, essendo tutt’ora ancora ai 10nm. Il passaggio alla tecnologia proprietaria basata su M1 ha comportato per Apple la definitiva rinuncia ai processori Intel per Macbook, iMac e, a breve, anche Mac Pro, considerando che sui dispositivi mobile utilizzava già altre tecnologie basate su architettura RISC. La stessa AMD prosegue nella sua leadership nel computing delle console di nuova generazione, come fornitore sia di Microsoft (Xbox Series S | X) che di Sony (Playstation 5).
Se è pur vero che questi indicatori sono da pesare in un contesto molto più ampio, parlare di crisi per Intel sarebbe comunque ingeneroso, dal momento che dal punto di vista finanziario la società americana gode di ottima salute, con ottimi risultati nel 2020 e una stima sul 2021 che si posiziona ben oltre i termini previsionali di almeno un miliardo di dollari (stima ricavi complessivi 73,5 miliardi di dollari, fonte Intel). Proprio dal settore consumer, dove ci si poteva eventualmente attendere una flessione, arrivano le percentuali di crescita più importanti rispetto al 2020, nell’ordine di un +6% dei ricavi, a fronte di un +2% sul bilancio generale, dove pesa il calo del 9% negli ordini per i data center.
Per contrastare la rapida ascesa dei suoi competitor, Intel ha messo in atto una serie di strategie che mirano a recuperare il terreno perduto sia a livello produttivo che a livello marketing, dove il numero di nanometri, che vede in costante vantaggio TSMC, iniziava a diventare oltremodo problematico da gestire.
L’attuale processo produttivo a 10 nanometri FinFet, che Intel utilizza per i processori Core di undicesima generazione, appare a livello mediatico più arretrato rispetto ai 7 nanometri che TSMC garantisce ai processori AMD Ryzen, anche se il confronto non può ridursi al semplice confronto tra i differenti livelli di miniaturizzazione.
Da un lato è pur vero che, a parità di condizioni, a meno nanometri corrisponda una maggior capacità computazionale a fronte di minori consumi, ma incide anche il layout.
Da diverso tempo ormai i transistor 3D hanno consentito di incrementare la densità in vari modi, tant’è che i processori Intel, pur vantando un processo produttivo a 10nm, a parità di area, hanno un numero di transistor maggiore rispetto a quelli garantiti dai 7nm di TSMC per AMD Zen 3, che molti benchmark rivelano tuttavia più interessanti dal punto di vista di una valutazione prezzo / performance per quanto riguarda diversi ambiti applicativi. Sarebbe questo il dato che dovrebbe far maggiormente riflettere.
L’idea di rimuovere l’indicatore dei nanometri dalla propria roadmap pare orientata da criteri di marketing, in modo da riferire il numero senza nanometri di Intel a quello con nanometri delle roadmap di TSMC, ma non va comunque visto da parte di Intel come un semplice escamotage per dribblare un fattore di superiorità nella miniaturizzazione da parte del suo principale competitor.
La nuova roadmap di processori Intel prevede tutte le linee di CPU previste fino al 2015, a cominciare da quella che supporterà la dodicesima generazione Intel core, denominata Alder Lake. I nuovi nodi saranno infatti i seguenti:
- INTEL 7 (2021-2022) – evoluzione dell’attuale processo a 10nm utilizzato per l’undicesima generazione di processori Intel Core, supporterà la produzione di Alder Lake (Intel Core 12th). Contrariamente a quanto il numero potrebbe lasciar presagire, continueranno a basarsi sulla tecnologia FinFET a 10nm, ottimizzato del 10% in termini di prestazioni per watt. Sui processori Sapphire Rapids (data center) arriverà soltanto nel 2022.
- INTEL 4 (2022-2023) – Vedrà l’esordio del processo produttivo a 7nm di Intel, con la litografia EUV che sia TSMC che Samsung utilizzano già per le loro linee a 5nm, promettendo però una densità di transistor maggiore (oltre 200 milioni per mm quadrato contro gli attuali 170 milioni dei chip TSMC). I transistor FinFET dovrebbero essere ottimizzati del 20% in termini di prestazioni per watt rispetto a Intel 7. L’arrivo di Intel 4 è previsto per il 2022, ma per i processori Granite Rapids (data center) sarà necessario attendere fino all’anno successivo.
- INTEL 3 (dal 2023) – Nominalmente comparabile ai 3nm di TSMC, Intel 3 utilizzerà sempre i transistor FinFET con un’ottimizzazione del 18% in termini di prestazioni per watt rispetto a Intel 4. Al momento è noto che tale tecnologia dovrebbe arrivare sul mercato entro il 2023, ma Intel non ha ancora reso noto quali saranno le nuove famiglie di processori che andrà ad alimentare.
- INTEL 20A (dal 2024) – Laddove Intel promette un vero e proprio salto generazionale è con i chip 20A, il cui riferimento va al processo produttivo a 20 Angstrom (= 2 nanometri). Intel 20° vedrà l’esordio dei nuovi transistor RibbonFET, che prevederanno gate su tutti i lati, con una velocità di commutazione più elevata rispetto ai FinFET, a fronte di un ingombro minore. La nuova tecnologia proprietaria PowerVia consentirà di alimentare anche il lato posteriore del wafer, aumentando ulteriormente l’efficienza dei nuovi processori. Sulla base della tecnologia basata sui transistor RibbonFET dovrebbe arrivare, nel 2025, anche INTEL 18A.
A tale notizia, TSMC ha prontamente fatto sapere di essere in grado di introdurre i propri chip 20A un anno prima rispetto ad Intel, a partire dal 2023. La sfida è insomma apertissima, nell’auspicio che tale concorrenza si traduca in un vantaggio concreto a livello di prezzo / performance per gli utenti finali.
Oltre all’evoluzione nei processi produttivi, Intel ha annunciato importanti novità relative al packaging dei processori, nella direzione di collocare in maniera sempre più efficace tutti i componenti sullo stesso DIE (CPU, GPU, RAM), sfruttando vari strati per il posizionamento. A partire dal 2022, sui processori consumer Meteor Lake arriverà la tecnologia Foveros 2, mentre nel 2023 arriveranno anche i nuovi standard Foveros Omni e Foveros Direct.
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La strategia che Intel ha evidenziato nella propria roadmap mira al recupero in termini di processo produttivo entro il 2024, anticipando però una serie di novità tecnologiche che dovrebbero accelerare la competitività sul mercato dei propri processori.
Se da un lato pare evidente che ci sia una “guerra dei chip”, appare d’altro lato scontato come vi sia un interesse da parte dei produttori a fare fronte comune per fronteggiare a proprio vantaggio l’attuale crisi dei chip. Sono infatti sempre più frequenti le commesse a fornitori terzi. Negli ultimi giorni del 2020 si è a lungo parlato del fatto che Intel avrebbe esternalizzato la produzione di chip TSMC per alcuni sistemi SoC (System-on-Chip per processori Atom e Xeon, NdR), oltre a valutare l’esternalizzazione di alcuni chip per la serie Core i3. Tali partnership vanno nell’interesse comune di sostenere ritmi di produzione altrimenti impossibili per soddisfare le richieste, oltre ad ovvi interessi di carattere puramente economico.
La stessa Intel ha annunciato l’avvio del programma Foundry Services, che utilizzerà gli stabilimenti proprietari per fornire chip ad altri produttori, come Apple, AWS e Qualcomm, che avrebbe già ufficializzato un accordo a partire dal 2024, per realizzare nuovi processori basati sul processo produttivo a 20A, ad ulteriore conferma di come la rinnovata competitività di Intel non possa prescindere da significative novità tecnologiche.