Se dovessimo cercare la “buzzword”, il termine più utilizzato in queste ore, sarebbe senza dubbio “U Turn”, “dietrofornt”, per noi italiani,.
Perché dopo giorni di tensione, di borse e titoli a picco, di incertezze e irritazioni (termine questo caro alle diplomazie di tutto il mondo), e soprattutto dopo aver proclamato l’inizio di una nuova era commerciale con l’imposizione di dazi fino al 50% su numerosi Paesi — in quello che lui stesso aveva definito il “Giorno della Liberazione” — il presidente Donald Trump ha fatto una netta marcia indietro. Mercoledì, attraverso un post pubblicato sul suo social Truth, ha annunciato una sospensione di 90 giorni delle cosiddette “tariffe reciproche”, riducendole temporaneamente a un’aliquota universale del 10%.
Un’eccezione sostanziale resta però la Cina, per la quale le tariffe sono state immediatamente portate al 125%, dopo che Pechino aveva risposto alle precedenti misure statunitensi con controdazi dell’84%. “La Cina deve capire che i giorni in cui poteva approfittare degli Stati Uniti e degli altri Paesi sono finiti”, ha scritto Trump, per dare ulteriore vigore alla propria decisione.
Una marcia indietro che arriva comunque non solo dopo una serie di “giornate nere” a livello borsistico, ma anche dopo le crescenti pressioni da parte del mondo economico e appelli alla moderazione provenienti anche da figure influenti all’interno dello stesso Partito Repubblicano. Secondo il segretario al Tesoro Scott Bessent, “75 Paesi hanno già contattato Washington per negoziare”. Tra questi Vietnam, Corea del Sud e Giappone, che avevano subito dazi rispettivamente del 46%, 25% e 24%.
Una corsa alla negoziazione bilaterale che aveva spinto il presidente Usa a dichiarazioni decisamente poco eleganti e per nulla protocollari sulla propria posizione di forza.
Perché Trump ha fatto marcia indietro sui dazi
Il fatto, delle ultime ore e fatte salve possibili sorprese nei prossimi giorni, è che la sospensione c’è e che rappresenta un cambio di marcia rispetto alla linea dura da pochi giorni.
Ufficialmente, la Casa Bianca parla di una “strategia negoziale” pianificata fin dall’inizio, ma la realtà appare più complessa. Le Borse sono crollate, con perdite record innescate dalla prospettiva di una guerra commerciale su vasta scala. E anche i più stretti alleati del presidente nei giorni scorsi hanno iniziato a esprimere pubblicamente le loro perplessità.
Figure di spicco del mondo finanziario come Jamie Dimon (JPMorgan), Larry Fink (BlackRock), Ken Griffin e Bill Ackman hanno messo pubblicamente in guardia l’amministrazione Trump sui rischi di una recessione imminente. Griffin, in particolare, aveva definito le tariffe “un enorme errore politico”, mentre Ackman aveva suggerito esplicitamente una pausa strategica di 90 giorni — ipotesi che solo due giorni fa Trump e la Casa Bianca bollavano come “fake news”.
Anche i “ribelli” repubblicani al Congresso e sostenitori come Ken Langone avevano manifestato forte disagio. Sul Financial Times, Langone aveva liquidato i dazi al 46% sul Vietnam come “bullshit”, segnalando il crescente malcontento all’interno della base conservatrice.
L’impatto immediato sui mercati
La reazione dei mercati è stata immediata e potente. Wall Street ha registrato la miglior giornata degli ultimi anni: il Nasdaq è balzato del 12,2%, lo S&P 500 è salito del 9,5%, mentre il Dow Jones ha guadagnato quasi 3.000 punti (+7,87%). Apple ha visto il suo titolo impennarsi dell’11%.
Anche in Europa la sospensione dei dazi ha innescato un rally: mentre scriviamo Milano è passata da un avvio piatto a un balzo dell’8%, con numerosi titoli in rialzo in doppia cifra. L’Asia ha seguito l’esempio con chiusure positive in scia alla seduta americana.
Lo stesso Trump, poco prima dell’annuncio ufficiale, aveva pubblicato un post in maiuscolo: “THIS IS A GREAT TIME TO BUY!!!”, aggiungendo la sigla “DJT”, il simbolo borsistico della sua società Trump Media & Technology Group, le cui azioni sono salite di oltre il 20% in giornata.
La posizione degli Stati Uniti e le tensioni con la Cina
Nonostante l’apparente distensione, la linea dura contro la Cina resta immutata. Trump ha ribadito che Pechino “ha mancato di rispetto ai mercati globali” e per questo le tariffe sui prodotti cinesi aumentano dal 104% al 125%. Secondo il segretario al Tesoro Bessent, “la Cina ha scelto l’escalation”, ma ha aggiunto che gli Stati Uniti vogliono comunque “negoziare in buona fede”.
La Cina, da parte sua, ha risposto con durezza. Il Consiglio di Stato ha definito le nuove tariffe americane “un errore su errore” che “viola gravemente i diritti e gli interessi legittimi della Cina” e “mina il sistema commerciale multilaterale basato sulle regole”. Pechino ha promesso di “combattere fino alla fine”, facendo eco alla linea già tenuta durante la guerra commerciale del 2018-2019.
Secondo l’economista Wendong Zhang della Cornell University, la Cina è oggi meno dipendente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti e più orientata al consumo interno, e la popolazione sembra supportare la linea dura del governo.
Marcia indietro sui dazi, l’Europa tra sollievo e cautela
Anche dall’Europa sono arrivati segnali positivi dopo l’annuncio della sospensione dei dazi. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha scritto su X: “Accolgo con favore l’annuncio del presidente Trump. È un passo importante verso la stabilizzazione dell’economia globale”. Ha ribadito il sostegno dell’UE a un accordo “tariff zero-zero” con gli Stati Uniti, sottolineando l’importanza di “condizioni chiare e prevedibili” per il commercio e le catene di approvvigionamento.
La Commissione si è detta pronta ad avviare “negoziati costruttivi”, ma non è mancata una certa irritazione per il tono aggressivo usato da Trump nei confronti degli alleati. In un recente evento di fundraising repubblicano, il presidente aveva descritto i Paesi che cercano un accordo come “disperati” e “pronti a tutto pur di ottenere un’intesa”. Parole che, seppur rivolte alla base elettorale, non sono passate inosservate nei palazzi di Bruxelles.
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Uno scenario ancora incerto
Nonostante il sollievo momentaneo, molti analisti avvertono che la tregua potrebbe non bastare a evitare una recessione. Secondo Joe Brusuelas, chief economist di RSM US, l’economia americana “è ancora destinata a entrare in recessione” a causa dei molteplici shock simultanei subiti. Anche Goldman Sachs ha rivisto le sue stime, portando al 45% la probabilità di recessione nei prossimi 12 mesi (contro una previsione base più pessimistica prima dell’annuncio).
Jake Colvin, presidente del National Foreign Trade Council, ha definito la pausa “un passo nella giusta direzione”, ma ha avvertito che l’imposizione di dazi al 10% su quasi tutte le importazioni, e di tariffe elevate su Cina, acciaio, alluminio e auto, mantiene alta l’incertezza per le imprese.
Una strategia ancora tutta da chiarire
Trump e i suoi consiglieri insistono sul fatto che la sospensione rientri in un disegno strategico: creare pressione per ottenere migliori accordi commerciali. Bessent ha spiegato che ogni Paese negozierà tariffe su base “separata e personalizzata” e che Trump sarà “personalmente coinvolto” in tutte le trattative. “Nessuno sa creare leva meglio del presidente Trump”, ha affermato il segretario al Tesoro.
Resta però il dubbio se si tratti davvero di una strategia ben congegnata o di una reazione d’emergenza a un crollo dei mercati e alle critiche interne. Al momento, la sola certezza è che il fronte commerciale globale resta instabile, e la tregua potrebbe essere solo temporanea.
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